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jornata i. la coppella. 159

          E mille vote pienze,
          Che sia vino, che cresca,
          Ed è carne, che mesca1!
          Si parla, ntramma, e, si cammina, ntesse;
          Si ride, ntrica, e, si te tocca, tegne;
          E, quanno non te manna a lo spitale,
          Sì trattato d’auciello, o d’anemale;
          Chè, co marditto stile,
          Te lassa, o senza penne, o senza pile2!
Fab. Si tu mettisse ncarta quanto aje ditto,
          Se vennarria seje pubreche sta storia3;
          Ca se ne caccia assempio,
          Ca se fa l’ommo spierto a stare allerta,
          E non darese nmano a sse squartate;
          Perchè è moneta fauza,
          Ruina de la carne e de la sauza!
Jac. Si vide pe fortuna a na fenestra
          Una, che pare a te, che sia na fata;
          Ha li capille junne,
          Che pareno a bedere
          Catenelle de caso cavalluccio4;
          Lo fronte, comme a schiecco;
          Ogn’uocchio, che te parla e mire nfrutto;
          Doje lavra, comme a felle de presutto;



  1. Mischia, è contagiosa.
  2. Il Braca, nella farsa Sautabanco, tra varii mali nomina: «na pelarella a na inguinaglia» (ms, c., f. 31). Il Lando: «Guardati di rimescolarti con cortigiane, ispezialmente in Napoli, Roma, Vinegia; se non ne vuoi in premio riportare gomme, piaghe, doglie, taruoli, pannocchie, dentaruole e pelarelle» (cit. dall’Imbr., l. c., p. 100). Cfr. Sgruttendio (o. c., I, 47; II, 5).
  3. (EO) venarria. — Storie, propriamente quei libercoli popolari, di varia contenenza, che si stampavano, allora come ora, a soddisfare i bisogni letterarii del popolo.
  4. Trecciuole di formaggio, una delle tante forme nelle quali si sogliono lavorare i formaggi, ancora in uso nelle nostre provincie.