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jornata i. la coppella. 147

          Ma, puosto a copellare,
          Chillo, che chiù se stira,
          Chillo, che chiù pretenne,
          E la sfelizza e frappa,
          Ancora ave li calle de la zappa!
Fab. Tu tuocche a dove dole,
          Non se pò dire chiù, cuoglie a lo chiuvo!
          M’allecordo a preposeto,
          (E parola agge a mente!),
          Ca disse no saputo:
          «Non c’è peo che villano resagliuto!»
Jac. Vide mo no vaggiano,
          No cacapozonetto1 ed arbasciuso,
          Che stace mpretennenzia
          De casecavallucce2 e che se picca
          Co gran prosopopea.
          Che t’abbotta pallune,
          Che sbotta paparacchie.
          Sputa parole tonne e squarcioneja,
          Torce e sgrigna lo musso,
          E se zuca le lavra, quanno parla;
          Mesura le pedate;
          Va tu nevina chi se pensa d’essere!
          E spanfeja e se vanta:
          «Olà, venga la ferba la pezzata3!
          «Chiamma venti de miei!
          «Vedi se vuol venire alquanto a spagio4



  1. Millantatore.
  2. Piccoli caciocavalli, sorta di latticinio. O. Lando, parlando di Napoli: «Tu sguazzerai con quei caci cavallucci, freschi, arrostiti non con lento fuoco, ma prestissimo, con sopraveste di zucchero et cinnamomo. Io mi struggo solo a pensarvi» (Imbr., l. c., p. 44). Aggiunto a pretennenzia, è un dispregiativo.
  3. Int.: la giumenta fulva e quella pomellata
  4. Spasso. — Storpiatura voluta, per indicare un parlar toscano spropositato.