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clxxxii | introduzione |
1634-6, se non rappresenta il massimo bene, rappresenta, certo, il minor male; e bisogna necessariamente prenderla a base della nuova edizione.
Quanto alle negligenze, che potevano esservi nel manoscritto del Basile, e che l’Oliva credeva obbligo dello editore ricorreggere, conviene andar piano. Di questi errori, o negligenze, possono farsi due categorie: quelli, che sono praticati costantemente, e quelli, che consistono in discrepanze e varietà di forme di ortografia. I primi, per quanto si sia convinti che sieno errori di lingua di ortografia, non si possono toccare, perchè fanno parte integrante dell’individualità dello scrittore1. I secondi meriterebbero un diverso trattamento. Ma (questo è il punto!), si può esser sicuri che sieno un puro effetto di negligenza? E, dato questo, si può procedere con certezza nel rimettere le cose a loro posto? Il Basile, come il Cortese, non scrivevano un dialetto già letterariamente formato e definito, ma un dialetto, ch’essi andavano creando come lingua letteraria, nella sua grammatica e nella sua ortografia. E, nello opere del Cortese, stampate lui vivente e da lui rivedute, l’Oliva stesso ritrovava varietà e discrepanza, che destavano la sua meraviglia2. Inoltre,
- ↑ Per es.: il Basile e il Cortese usano molto di rado la lettera doppia in principio di parola, tralasciandola in moltissimi casi, nei quali il dialetto la richiede. Sarà un errore, ma non è il caso di correggerlo nelle loro opere. Lo corresse il Porcelli nella sua edizione, e lo corresse male; cosicchè quell’edizione nè è dialettalmente esatta, nè ha il merito di esser fedele agli originali, che ristampa.
- ↑ Ms. c., p. 44.