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la crisi dell'offensiva 37


Chi giudica la guerra da lontano, chi la vede attraverso le vecchie idee, vecchie di quindici mesi, e calcola ancora una situazione militare calcolando i quantitativi di uomini e di cannoni dei due avversari e le loro risorse e il loro valore, non può rendersi conto delle difficoltà immense, quasi inverosimili, che un esercito forte, bene armato e ardimentoso, deve superare per sloggiare dalle sue trincee un nemico anche meno numeroso e meno audace ma ben preparato.

Si può sconvolgere un trinceramento nemico con un fuoco di tutti i calibri, non lasciarvi un reticolato intatto, un baluardo eretto, un uomo vivo, sopprimervi ogni ostacolo, ogni protezione, ogni vita, e trovare che questo trinceramento sventrato, abbandonato, deserto e muto, non può essere avvicinato, non può essere preso, o non può essere tenuto.

Colpendo una posizione ora non si colpisce più la sua forza maggiore. La sede della sua forza è altrove, ed è introvabile. Quando tutte le difese locali sono annientate, rimane intatta, o quasi, la difesa più poderosa: quella delle artiglierie. Andando all’assalto di posizioni sulle quali non c’è più niente e non c’è più nessuno, la truppa si trova esposta ben spesso a fuochi assai più terribili che se le posizioni fossero gremite di masse enormi e risolute. Dopo aver soppresso o ridotto tutte le opposizioni visibili, bisogna sopprimere quelle