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342 lettere dal mare


pagata ottanta lire, il cui solo difetto consisteva nel non poter camminare.

Un battelliere albanese, venuto sotto bordo, aveva ammirato la testa melanconica e severa del corsiero affacciato a prua. «Lo vendete?» — domandò. «Sicuro». — «Allora salgo». — «Ah, no: i cavalli non si giudicano che a terra». Bisognò sbarcarlo, e la discesa dei cavalli di Fidia dalla facciata di San Marco deve essere costata molta minore fatica del trasbordo di quel quadrupede inerte, che l’albanese, esigente, rifiutò poi per deficienza di locomozione. Intanto il tempo passava e la spedizione, pur ricevendo da ogni parte le conferme dei rifornimenti di sottomarini, non arrivava a risultati concreti.

Era venuto a sapere che le navi fornitrici avevano orari fissati e inalberavano speciali segnali al riconoscimento. Impossibile quindi essere scambiati per una di loro. Era necessario mutar tattica, cercare il modo di conoscere il misterioso segnale di richiamo.

Il battello camaleonte andò a gettare l'àncora in una rada sospetta, e il capitano con alcuni uomini sbarcò in paese.

Il vero comandante, l’ufficiale, compariva nei porti come semplice marinaio, uno straccione al par degli altri, e si faceva avanti invece un falso capitano, in perfetto carattere, autoritario, che maltrattava i suoi uomini, che parlava sempre ad alta voce, irruento e volgare.