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sul vertice del monte nero 205


sca. Improvvisamente la cresta dello Smogar, avanti a noi, è scomparsa in una nube.

Un odore allettevole di cucina ha riempilo le gallerie più basse del Monte Nero. Ci chiamava; e uno dietro all’altro, come i frati per i corridoi di un convento, siamo scesi alla mensa, in una specie di interno di vecchio veliero navigante fra le nuvole. L’allegria condiva le vivande. La scena ricordava il pasto degli esploratori nelle illustrazioni dei viaggi al polo. Una luce lattiginosa penetrava dalle finestrine mezzo otturate dalla neve. A poco a poco la luce scemava. Qualcuno ha guardato fuori: «Perbacco, nevica!»

Una neve minuta e granulosa finiva di chiudere le finestre. «In marcia chi parte, prima che la tormenta ingrossi!» Sotto ai pozzi aperti nelle vôlte delle gallerie, il cadere del nevischio illuminato formava colonne di chiarore striate e tremule. Quando siamo sboccati sulla spalla del monte ci siamo trovati in un grigiore nebuloso. Il sentiero cominciava a sparire cancellato dai nuovi fiocchi. Non si vedeva più nulla a venti passi.

Appena ci siamo mossi, il primo della cordata ha scivolato ed è caduto sul dorso. Io che lo seguivo l’ho involontariamente imitato. Gli uomini della vetta, scesi a salutarci, ridevano divertiti. «Restate così! — ci hanno gridato. — Si va giù meglio seduti!» E siamo andati giù modestamente seduti, remando con