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sul vertice del monte nero 203


è sopra un pianerottolo nevoso largo due palmi che bisogna percorrere da un’imboccatura di galleria all’altra, fra la parete candida, sulla quale sporge minacciosa una cornice di neve, creatrice di valanghe, gonfia, sospesa come un traboccare di spuma, e il vuoto. Sotto a noi è l’azzurro delle grandi lontananze. La vetta sembra che voli. Le balze si immergono in luminose e velate profondità. Una visione magnifica e spaventosa.

Altrove le gallerie di neve immettono in gallerie di pietra. Anche la roccia è bucata, traversata in ogni senso da corridoi, travati come gl’intestini di una miniera. Si arriva alle posizioni delle artiglierie, presso a cannoni accovacciati nell’ombra, puntati sulle posizioni nemiche. Da quella parte, anche nella valle, la primavera non affiora. Nella conca rocciosa del Potoce, sotto alla vetta del Monte Nero, vi è tanta neve accumulata sugli scogli e sui macigni che essa vi forma lievi ondulazioni vaporose, eguali, vaste, e dà l’illusione di una nebbia folta e bianca.

Lì la neve resiste nei greti tutto l’anno; ve n’era quando prendemmo prigioniero un battaglione austriaco nella dantesca convulsione dei dirupi ora sepolta, il giorno della conquista, mentre due compagnie di alpini scalzi, inerpicatisi silenziosamente alla notte sulla vetta estrema del Monte Nero, la espugnavano con un assalto che ha del soprannaturale. Quasi