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sul vertice del monte nero 201


come un nuotatore che si tuffi, e sparisce. Dopo un po’, gli amici sentono la sua voce lontana che grida: «Buona notte!» — e ritirano la corda vuota. Se invece il silenzio si prolunga, traggono indietro il tuffatore rimasto incastrato, ansimante, acceso in volto, furibondo. E si ricomincia fra le risate. C’è un ufficiale che non manca mai il colpo; va giù come un trivello; lo chiamano «la perforatrice».

Le gallerie arretano la vetta e immettono nelle posizioni da una parte, e nei rifugi dall’altra. C’è il lato guerra e il lato pace, il versante delle cannonate e il versante del riposo. Il versante del riposo è la roccia a picco. È una muraglia alta più di un chilometro, solcata da spaccature, ineguale, tormentata, fantastica, presso le cui cornici, sul precipizio vertiginoso, l’uomo si è annidato come l’aquila.

Si sono costruiti i baraccamenti su delle scabrosità della parete immane, sopra sporgenze minuscole che il piccone ha pareggiato. I lavoratori erano calati dall’alto, legati alle corde. Preparate le "mensole di sostegno, essi hanno poi tagliato sui rilievi di pietra le scale per scendervi. Sorsero le baracche, fissate alla roccia, simili a minuscole scatole inchiodate in un gran muro. Strette e lunghe, hanno l’aria di vagoni ferroviari, con tutti i loro finestrini in fila aperti sull’abisso. All’interno, delle lettiere a due ripiani, come nell’angusta stiva di una nave d’emigranti, e uno stretto passaggio lungo