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verso la vetta del monte nero 187


le speronate a picco i canaloni precipitosi, colmi di neve, stendevano dei biancori verticali che raggiungevano i nevai delle creste scintillanti. La vetta irrompeva nel sereno a tale altezza che si velava di azzurro, diafana, lontana, leggera. Lassù, sul ciglione luminoso, dei puntini in fila, così incerti, così minuscoli che si perdevano di vista e si stentava a trovarli nel candore: una catena d’uomini. A destra della vetta, una spalla nevosa, tutta invasa da un’ombra celeste: la Sella Kozliak, la nostra prima mèta. Tutto ciò pareva inaccessibile, irraggiungibile, alla sommità di pareti mostruose.

«Svelti, si fa tardi!» — avverte qualcuno. Ci affibbiamo le grappe da ghiaccio ai piedi, e in fila indiana, a passo misurato, entriamo in un paesaggio di neve. Non vediamo più nulla per qualche tratto; ascendiamo fra muri di ghiaccio più alti di noi. Degli ultimi abeti sporge solo qualche cima sottile che dondola al vento.

Le pale hanno tagliato angoli e crocicchi nei camminamenti profondi, vi è una illusione di edifici bianchi ai nostri lati, nello spessore della neve, e pare talora di scalare i vicoli angusti e senza fine di un candido paese di sogno.