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verso la vetta del monte nero 185


serrate e nascoste fra le lunghe tavole della soma. Si vedevano spuntare soltanto le orecchie aguzze, agitate dalla preoccupazione. Non potendo veder bene il sentiero, di tanto in tanto qualche mulo si fermava meditabondo. Aveva l’aria di interrogare il conducente. «Iù!» — diceva l’uomo, e la bestia capiva che tutto andava bene. Fra il mulo e il suo guardiano vi è un accordo singolare fatto di due pazienze che si intendono.

È probabile che se il mulattiere alla sua volta cadesse in un precipizio e rimanesse illeso, tirerebbe fuori la pagnotta dal tascapane e la morderebbe aspettando l’ulteriore svolgimento degli eventi. Vi è negli occhi di questa gente una calma fredda, profonda, possente. Nella loro anima semplice è una gravità solenne nata nei silenzi e nella solitudine della montagna.

Qualunque cosa accada, il mulattiere va avanti, col suo passo misurato e tenace. Parla più facilmente al suo mulo che al suo compagno. Le cannonate nemiche non lo scuotono. È talmente occupato a posare solidamente il piede fra i dirupi, che il resto non lo riguarda. Al più, se un proiettile urla troppo vicino, egli gli grida gravemente: «Tienti alto!» — e sèguita.


La carovana che ci aveva fermati è passata, lo scalpitìo si è dileguato, e abbiamo ripreso l’ascensione nella quiete imponente, rotta ad intervalli da un lontano rombo di motore. Era