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170 la montagna delle folgori


pitano in trincea, pieni di gelatina e di sassi, legati con fili di ferro, e fanno scivolar giù ogni cosa con la miccia accesa. Le slitte esplosive si chiamano i «tramways per l’altro mondo». «Pronti! Partenza! Buon viaggio!» — e lo spaventoso bobsleigh discende pattinando.

Ma gli austriaci ci rendono la pariglia, poco più lontano, sullo Javorcek — l’ultima pendice del Monte Nero, rocciosa e boscosa, che scende bruscamente nella conca di Plezzo. Là sono loro in alto. Le nostre trincee sono ai piedi di un dirupo, le loro sul ciglio. Noi siamo al coperto dai colpi di fucile: la fantasia austriaca e la scienza tedesca cooperano a riparare a questo inconveniente. Inventano ogni genere di sorpresa. Ora sono delle ruzzolo fiammeggianti che scoppiettano e incendiano i roveti, i cespugli e i tronchi d’albero che rivestono il dirupo e ci nascondono. Ora sono rivoli di liquido incendiario, colate ardenti che scendono nei greti, lente, bituminose, fumose, e che si allungano crepitando. I nostri accorrono, e a colpi di pala, con un’attività concitata, creano argini, fermano le colate che si spengono in pozze nerastre odoranti di asfalto.

Su questi castelli di roccia, assediati e difesi, la guerra riprende forme primordiali, torna al lancio dei macigni e del fuoco greco. Si combatte sulle rupi come si combatteva sulle mura delle antiche città assalite. Così sul Rombon, che vedevamo sorgere regolare e bianco oltre