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fra le nevi del kozliak 165

distinguevamo il limite della trincea nemica, a pochi passi dalla nostra, seguivamo il movimento di una squadra sul ciglione.

Tutta la posizione non è che una cima bianca circondata dall’abisso; è un pianerottolo nevoso al quale si giunge per un dorso sottile che pare un ponte. Intorno scendono a picco pareti dirupate, coperte di verglas, incrostate di cristallo, sulle quali la neve e il ghiaccio si sono attaccati per l’azione delle tormente ed hanno fatto spessore. Si combatte come sulla sommità di una gran torre informe, tutta variegata di turgidi candori. Sulla vetta vi sono otto metri di neve.


L’assalto che riuscì a prender piede lassù, in una giornata di luglio, passò sul costone sottile che pare un ponte, fra due precipizi. Gli uomini dovevano avanzare uno dietro all’altro, scalando lentamente sotto al fuoco. Le esili schiere, progredendo, si diradavano, si dissolvevano. Ma i superstiti andavano avanti. Quando il primo attacco giunse ai dirupi della vetta, non aveva più forze. Si videro allora i pochi uomini arrivati sotto alla trincea nemica, addossarsi alle rocce tenendosi per le mani per sostenersi l’uno con l’altro, e aspettare, ritti su lievi sporgenze, così in catena. «Italiani arrendetevi!» — gridavano gli austriaci. Nessuno rispondeva. I nostri erano là, immobili, rigidi come statue. Qualcuno di loro, col-