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cadorna 7

no bibelot, uno di quei bronzi giapponesi che rappresentano il Fuji-Yama, la montagna sacra striata d’argento. Dietro all’ogiva, una grande teca rinchiude due chiavi antiche, rozze ed enormi: sono le chiavi della fortezza di Monfalcone. La fortezza non c’è più, divorata dai secoli, ma la città ne custodiva gelosamente le chiavi, come certi nobili arabi marocchini conservano la chiave della loro casa di Siviglia sparita da quattrocento anni: perchè gli uomini non amano profondamente che il ricordo e aspettano che le cose scompaiano per adorarle. Questi oggetti singolari, la granata e le chiavi, unico adornamento della nitida sala, sembrano messi lì come un simbolo, per un memento, a ricordare la conquista e l’ostacolo, la mèta e il nemico, la vittoria dietro alla battaglia. È ad un angolo del tavolo delle carte, di fronte all’ogiva e alla teca, che ordinariamente il Generale si siede per conversare, il gomito appoggiato sui profili di qualche posizione.

Vi sorprende la gioventù del suo sguardo. I suoi baffi folti sono bianchi, i suoi capelli si levano sottili, radi, candidi, al sommo della fronte scavata dai solchi del pensiero, tutto il suo volto ha le pieghe che la fatica di vivere imprime, ma una giovinezza verde guarda dai suoi occhi chiari. Guarda per le sue pupille, e lampeggia, e ride, la freschezza del suo spirito, inalterabile perchè è forse la