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l’assalto 117


taliani!» La trincea loro non era più lontana che un centinaio di metri, ma in alto, dominante, come la muraglia di un castello. Per raggiungerla bisognava inerpicarsi sopra una costa scabrosa e scoscesa, coperta di neve, rasa dalla mitraglia. Un primo tentativo era fallito subito. Si aspettò la notte.

Alle nove salì sfavillante sul Castello Rosso il razzo di segnale convenuto. Il comando si era insediato lì. Da tutte le parti l’assalto cominciò. Ma il cielo avvampò di razzi illuminanti, un proiettore si accese sulla posizione austriaca, e tutta la zona apparve immersa in un palpitante e favoloso splendore. Le mitragliatrici austriache non avevano sosta. Sul terreno scoperto volgevano il loro getto contro qualunque cosa si muovesse. Era una scena infernale in quella luce di prodigio.

La fanteria, con qualche plotone alpino, ad onta delle perdite potè avanzare un po’ a destra, favorita dal terreno, lungo il costone che strapiomba sul torrente Anger. Ma l’assalto frontale era fermato. Fermato, non rovesciato. I nostri tenevano il terreno guadagnato. Stavano là, aggrampati, accoccolati, incastrati nelle anfrattuosità, annidati nella neve, come facendo corpo con le rocce, tenendosi in qualche punto per le mani in catena per potersi reggere, decisi a non arretrare, a non cedere, insensibili al freddo, immobili, attenti, silenziosi, e il raggio del proiettore passando sfiorava le