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la partenza 35


per un eventuale piede a terra. Ettore, girata la manovella del motore, s’è rannicchiato sul cassone della benzina, dentro una gomma di ricambio, e sembra un naufrago aggrappato al salvagente. La macchina romba. Il Principe, che tiene il volante, grida:

— Pronti?

Sì, pronti. L’automobile corre silenziosa sulla sabbia del viale.

— Buona fortuna! — ci gridano.

— Addio!

Al cancello della Legazione tutto il corpo di guardia è fuori, e saluta. La sentinella presenta le armi. Siamo sulla strada. Quale insolita animazione nel quartiere diplomatico, che dorme abitualmente fino alle dieci! Tutti i rickshas di Pechino sono in servizio, e arrivano correndo da ogni parte conducendo una preziosa clientela di dame e gentiluomini. Avanti alla caserma Voyron s’affolla una moltitudine di cinesi frammista a soldati d’ogni nazionalità. Trofei di bandiere ornano i muri, e festoni di verdura circondano i trofei. Un velario attraversa la strada; su di esso è scritto: Bon voyage! — “Bon voyage! „ è la frase che si ripete da ogni bocca. Un malaccorto grida — Au revoir! — la gente ride.

La corte della caserma era gremita. Si sarebbe detto un pesage in un giorno di grand prix. Tutti gli stranieri vi si erano dati convegno. Il poco d’Europa e d’America che vive disperso nell’estremo Chi-li, si trovava riunito in quel punto. Era l’anima delle nostre razze che vibrava fra quelle mura. Qualunque fosse la sua nazionalità, ognuno sentiva un po’ d’orgoglio per l’avvenimento che lo aveva chiamato. Vi era come una solidarietà di cultura, d’educazione, d’istinto. Bisogna trovarsi lontano, isolati in mezzo ad altre civiltà, per provare l’affrattellamento della civiltà propria. Si celebrava una festa dell’Occidente nel cuore di Pechino.

Al personale delle banche, delle case commerciali, agli agenti dei sindacati, si frammischiavano con promiscuità cordiale addetti