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la partenza 31


— Niente.

— Nessun ritardo?

— Nessuno.

— Si parte il dieci?

— Alle otto del mattino.

Finalmente cessammo dal dire “il dieci„ per dire “domani„. Fu vigilia di battaglia. I treni di Tien-tsin portavano ufficiali, residenti europei, signore, touristes. E portarono anche la banda musicale della guarnigione francese, che cominciò subito ad inondare di armonie il quartiere delle Legazioni. Molte ore furono da me consumate nella difficile formazione d’un bagaglio che pesasse 15 chilogrammi e contenesse di tutto; mi aiutavano i boys dell’albergo in questo lavoro gigantesco. Intanto si diramavano per legazioni e alberghi gli ultimi ordini: “Adunata alle ore 7.30 a.m. nel cortile della caserma francese Voyron — Partenza alle ore 8 — Uscita da Pechino per la Dosh-man (una delle porte al nord della città)„. Io correvo a dei conciliaboli importantissimi con gli alti funzionari della amministrazione dei Telegrafi Imperiali per organizzare il servizio telegrafico; e trovavo dei bravi giovani cinesi, pieni d’una calma volontà di fare, con i quali, fra una coppa di thè e l’altra, mi trovai presto d’accordo. Gli uffici telegrafici della Mongolia sarebbero stati pronti a trasmettere le mie missive. Alla sera pranzi e brindisi d’addio. Il capo della polizia pechinese, un grave mandarino, per ordine della Corte si presentò al Principe Borghese a chiedergli quale era il nostro itinerario nell’interno della città, al fine di predisporre un servizio d’ordine e fare annaffiare le strade. E fu poco dopo il suo arrivo che il Wai-wu-pu ci fece pervenire i passaporti. Quale miracolo si era compiuto nelle menti di quell’eccelso consesso?

Nel silenzio solenne della notte di Pechino, interrotto appena da un battere di tam-tam che s’avvicina e s’allontana ogni ora segnalando il passaggio d’una ronda dalla polizia, in quel grave silenzio che lascia giungere di tanto in tanto un misterioso distante suono di gong, io, agitato ed insonne, ebbi veramente un senso