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474 capitolo xxi.


trati in Siberia, esiliati. Siamo dunque quasi fuori della pura terra ortodossa. Siamo fra gente che sembra ricacciata alle porte dell’Impero. Presso al confine stanno le popolazioni detestate: si direbbe siano stabilite lì per essere pronte alla fuga.

Arriva la sera: siamo ancora lontani 70 verste da Dwinsk. La stanchezza ci vince, desidereremmo fermarci, ma la campagna è deserta.

Presso a dei boschi solitari, troviamo sulla strada un’automobile signorile, ferma. Un valletto in livrea, vedendoci arrivare, si stacca da quella vettura, fa segno di arrestarci, e porge a Borghese una lettera: è l’invito di un ricco signore che ci offre ospitalità nella sua dimora. L’automobile che aspetta è incaricata di pilotarci. Accettiamo; ed eccoci per i viali di un grandioso parco. Giungiamo in un gruppo di villette sontuose, fra giardini in fiore, sulla riva di un magnifico laghetto quieto, ombroso, oscuro.

Il nostro ospite è l’ingegnere Kerbedy, polacco, l’ideatore e il costruttore della ferrovia transmancese, direttore di grandi compagnie ferroviarie. Come in sogno, così, dalla pioggia e dal fango della strada ci vediamo trasportati in tiepidi appartamenti, serviti da camerieri stylés, allietati dalla cordialità sorridente dell’ospitale famiglia Kerbedy, la quale (sorpresa più deliziosa di tutte) ci parla in perfetto italiano.

E parlammo dell’Italia, e, naturalmente, del sole.


Con un tempo degno del più perverso dicembre, alla mattina dopo, 3 agosto, alle quattro, rabbrividendo per il freddo, sotto la pioggia sottile, continua, gelida, abbiamo ripreso il viaggio.

Dwinsk dormiva ancora quando l’attraversammo. Quanta tristezza in queste città silenziose che visitiamo nel sonno! Sembrano morte. E noi non sapremo mai la loro vera apparenza; di esse non ci rimane che un ricordo desolato.

Passiamo l’ampio Duna sul ponte ferroviario che serve cumulativamente per i treni, per i pedoni e per le carrozze, ed entriamo nella magnifica strada militare della frontiera. Ecco almeno