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454 capitolo xx.


Siamo entrati all’ora del passeggio in quella deliziosa cittadina tutta bianca, ombrata da grandi alberi folti, nella quale si sente già, vagamente, la vicinanza della capitale sacra dell’Impero; si sente nella frequenza delle chiese, dei sepolcri, dei tabernacoli, questi ultimi sparsi anche per la campagna, dove alla sera fanno tremolare luci solitarie che il passante saluta col ginocchio a terra.

Prendemmo alloggio in un piccolo albergo. Per la prima volta la stanchezza non ci diede il sonno. Mosca era soltanto poche ore lontana.


Alle sette del mattino varcavamo la bianca porta turrita di Wladimir, e ci lanciavamo verso Mosca.

La strada, inondata di sole, era splendida, diritta come fosse stata tracciata a colpi di cannone attraverso le steppe, le boscaglie, i campi, i fiumi, gli stagni. Vi è in questa rigidezza qualche cosa di grandioso e di jeratico. Tale strada meravigliosa non può finire che davanti al supremo spettacolo del santuario dell’Impero.

Siamo spronati dal desiderio di giunger presto. Voliamo. La macchina pare che ci senta, che ci comprenda: regolare, silenziosa, obbedisce alla minima mossa dell’acceleratore, balza avanti e si contiene docile al gesto di Borghese che sta al volante; molleggia leggermente sulle pneumatiche con oscillazioni dolci che ci cullano. Alle otto attraversiamo una cittadina.

La gente esce dalle botteghe, accorre dalle vie laterali, ci saluta festosamente. Persino un grosso gendarme sorridente porta la mano alla visiera. Passandogli vicino gli chiediamo:

— Come si chiama questa città?

— Pokrow!

Rimaniamo sorpresi. Pokrow è a circa 80 verste da Wladimir. Continuando di questo passo arriveremmo a Mosca prima delle dieci. E non possiamo: dobbiamo giungervi alle due pomeridiane. Perchè? Per un dovere di cortesia. Alla vigilia ci ave-