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332 capitolo xv.


a momenti, pallido pallido, e gli gridavamo parole di incoraggiamento.

— Forza, amico! Forza adesso!

Non so perchè, in quello stato atmosferico vedevamo una specie di lotta fra il sole e la nebbia. Ora aveva il sopravvento l’una, ed ora l’altro. Noi, naturalmente, prendevamo partito per il sole. Ettore lo compassionava:

— Poveretto, fa quello che può!

Ma il sole fu ignominiosamente battuto. Fuggì, e non lo vedemmo più. La nebbia si sollevò per ricadere in forma di pioggia; e per tutto il giorno fummo tormentati dall’acqua, dal vento, dal freddo e dal fango. Le strade non erano più così buone come vicino ad Irkutsk. Fummo costretti qualche volta a deviare sull’erba dei prati per evitare delle buche, o delle pozze profonde, o dei fanghi sospetti. Non incontravamo più nessuno. La regione si faceva sempre più deserta. I campi e i prati cedevano il posto agli alberi. Entravamo nel regno della taiga, la sterminata foresta siberiana. Alle nove del mattino già correvamo nella sua tetra penombra.

La strada è un taglio attraverso la selva. Gli uomini si sono aperti un passaggio, ma per lunghi tratti, a destra e a sinistra, la foresta è impenetrata. Le regioni della taiga arrivano dalle praterie alle tundre; sono vaste come un impero; sulla più gran parte di questo mondo di giganti verdi l’umanità ha potuto conquistare faticosamente il solo diritto di transito. Correvamo per decine e decine di chilometri in mezzo alla imponente moltitudine oscura degli abeti, dei pini secolari, delle betulle dal tronco bianco. Valicando le alture dominavamo talvolta l’infinita distesa dei boschi. Penetrava in noi il penoso senso della solitudine. Una solitudine opprimente perchè limitata da quella immensa barriera d’ombre che ci fiancheggiava, resa più fosca e paurosa dalla luce crepuscolare che scendeva dal cielo burrascoso. Quel gran popolo d’alberi pareva avesse una vita, una non so quale apparenza ostile, un silenzioso atteggiamento di difesa, una volontà di chiu-