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266 capitolo xii.


in un balzo disperato, appoggiandosi, serrandosi con le braccia spalancate al cancello aperto, per lasciare tutto lo spazio libero al mostro ignoto e minaccioso. Quando guardammo in faccia quell’uomo vedemmo che era cieco. I suoi occhi bianchi ed opachi si spalancavano verso di noi per una istintiva angosciosa ricerca; sulla sua faccia emaciata era lo spavento. Egli aveva sentito che qualche cosa di veloce, di potente, di misterioso, passava vicino a lui, lo sfiorava nella grande e atroce notte senz’alba. Provammo un senso di rimorso per quella tragica paura.

I villaggi avevano un’aria di benessere. Le isbe erano quasi tutte nuove e grandi. E non ci mancava mai la consueta avanguardia di mandrie galoppanti che ci lanciavano fango con gli zoccoli nell’impeto della corsa. Ma avevamo preso confidenza col fango. Le ruote ne raccoglievano a pezzi che ci gettavano addosso. Per aria era un tempestare di mota. Noi e l’automobile ne eravamo interamente coperti; avevamo smesso ogni tentativo di pulirci il viso; ci rassegnavamo ad essere mascherati da una incrostazione di terra. Sembravamo delle statue di creta appena sbozzate: le nostre statue. Sotto quella truccatura la nostra aria grave ed annoiata aveva qualche cosa di comico, che però in quel momento eravamo poco disposti ad apprezzare ed a gustare. Ci dicevamo guardandoci: Siamo buffi! — con lo stesso tono serio col quale dicevamo: Fa freddo!

E faceva freddo veramente. Soffiava un vento che ci gelava. Io sedevo nel posto del predellino e raccoglievo tanto fango sulle gambe e sui piedi da averli trasformati in cose enormi e informi che mi pesavano molto quando dovevo scendere per aprire i cancelli. Sotto a quella scorza di terra bagnata mi sentivo rabbrividire. Mi ripetevo, per consolarmi, che eravamo in estate. Fortunatamente nelle prime ore del pomeriggio la pioggia smise di cadere, un vento di levante squarciò le nubi, apparve ad intervalli un po’ di azzurro e un po’ di sole, subito caldo, il fango si rassodò e provammo un senso di benessere come se nel tepore dell’aria bevessimo un cordiale. Ci trovammo lontani da ogni vil-