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per le praterie mongole 117


immensa cateratta azzurra. In basso, più vicino a noi, un paesaggio strano, un paesaggio di sogno, un agglomeramento immenso di collinette rossastre, tagliate, martoriate, solcate per ogni verso da miriadi di crepacci, sterili, varie ed eguali come le onde del mare, impallidite dalla lontananza fino ad avere il fantastico colore d’una nudità vivente, un caos color di rosa, una tempesta immobile. All’oriente sorgevano gigantesche le montagne del Grande Khingan, una imponente cavalcata di vette, sfumate e come dissolventisi Un singolare tempio lamista nel deserto.
Costruzione che ricorda stranamente antichi monumenti egizi.
nella troppa luce, al di là delle quali indovinavamo le vaste pianure della Manciuria. Poco dopo cominciammo a discendere. Entravamo in Mongolia. Erano le otto. Nelle vallette vicine scorgevamo dall’alto i tetti di miseri villaggi, rannicchiati fra le pieghe del terreno per difendersi dai venti del deserto.

Si discende dolcemente, al nord, e quasi subito cominciano i prati. La regione delle roccie finisce con le torri. Si è in un altro paese. Se la Cina non ha più frontiere su quelle creste, la Natura conserva gelosamente le sue. Passammo avanti ad una stazione di carovane; una cinquantina di carrette a buoi cariche