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sulla soglia della mongolia | 95 |
dati da un ufficiale dall’aspetto piuttosto di cooly ma coperto di galloni d’oro. I bastoni si sono sollevati sulla folla, e sono anche ricaduti su delle spalle, ma non molto perchè dopo alcuni secondi non si sarebbe trovata più nemmeno una spalla da bastonare: il cortile era deserto.
Dopo questo completo successo le milizie hanno occupato posizioni strategiche: due soldati alla porta, due ai fianchi dell’automobile, due in fazione sulla strada, e l’ufficiale nella cucina dell’albergo. Potevamo riposare tranquilli. Il mandarino di Hin-wa-fu non ci era avaro di protezione e di difesa. Più tardi egli mandò un funzionario a chiederci quando ce ne saremmo andati. Poteva essere più premuroso di così?
Di Hsin-wa-fu vi è una cosa che io non dimenticherò mai: l’ufficio telegrafico.
Non lo dimenticherò quello straordinario ufficio, prima di tutto perchè dovetti percorrere quattro chilometri per andarlo a trovare, e quattro naturalmente per ritornare, e quel giorno noi ne avevamo percorsi cinquanta. In una via solitaria, dentro alle mura, i fili telegrafici scendono dai loro pali sopra una casa silenziosa come un tempio. Nel tempio trovai due telegrafisti molto assorti in una importante e delicata operazione che la legge cinese ha recentemente proibito: essi fumavano l’oppio, sdraiati sopra il kang, con le loro pipe a clarinetto in mano, avvolti nel fumo profumato, denso e grasso del narcotico.
— Posso spedire un telegramma? — chiesi gentilmente dopo aver scambiato i saluti di rito.
Silenzio. Io mi sedetti. Dopo qualche minuto ripresi:
— Avrei un telegramma da mandare....
Uno dei fumatori mi si appressò, fece non so quali faccende per l’ufficio, si affacciò all’uscio e gridò che si portasse del thè.
— Volete trasmettere un mio telegramma? — esclamai ancora.
Delle idee cominciavano a farsi strada nella mente del funzionario imperiale. Mi guardò e mi disse in un inglese approssimativo: