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l’eccidio degli inermi 345


tico bastione. In tutta Padova non esisteva un angolo meglio protetto dai bombardamenti. Si sa come la catastrofe atroce si è svolta. Le casematte — le «cà mate», come le chiama il popolo — erano allagate dalla piena. Le prime persone accorse al rifugio si sono fermate al bordo dell’acqua melmosa, in fondo al cunicolo di accesso. Nuova folla sopraggiungeva, ignara, s’ingolfava nell’ampia sala terrena della taverna, andava a pigiarsi nel corridoio sotterraneo. In breve vi fu una ressa enorme, tumultuante, e fuori della porta, sulla strada, rigurgitava della calca. I ritardatari gridavano per farsi largo, non volevano restare all’aperto, si contendevano il passo. Era la corsa alla morte.

Sulle vôlte delle casematte vi sono sei metri di terrapieno, ma sul cunicolo di accesso non v’era che un piccolo strato di terriccio. Là sopra è caduto il proiettile austriaco, in pieno. Ha passato il terriccio, ha sfondato la vôlta, è scoppiato in mezzo alla calca. Il soffio mostruoso dell’esplosione, venuto dal sotterraneo come da una gola di cannone, ha fatto crollare l’osteria. Coloro che hanno varcato quella soglia sono morti tutti. E si è fatto subitamente intorno al vecchio bastione e nel quartiere vicino un silenzio terribile: un silenzio opprimente, angoscioso, spaventoso, che dura ancora.

Si lavora, si scava, si puntella, ma non si