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240 il generale tempo


sposto il loro telo da tenda a baldacchino, un lembo tenuto da sassi sul parapetto, il resto sorretto da bastoni. Altri hanno adoperato dei materiali austriaci, assi, tavole, pezzi di lamiera curvi e corrugati che formano delle piccole volte. La pioggia tamburella sui ripari come su delle ombrelle aperte. Sotto, nell’ombra, accoccolati, dormono profondamente quelli che sono stati di guardia la notte. Gli altri guardano dalle feritoie; o scrivono, la carta sulle ginocchia, con lunghe pause meditative durante le quali la punta del lapis gira e rigira fra le labbra dello scrittore come per cercarvi le parole; o fumano, seduti sopra un sacco a terra, contemplando ad ogni boccata la sigaretta che se ne va, e che è forse l’ultima.

Di tanto in tanto uno scoppiettìo improvviso di fucilate. Tutti si levano. Che è? È uscita una pattuglia. Ognuno torna alla sua occupazione. Le fucilate continuano per qualche tempo. È l’unico indice dei movimenti degli «arditi» che sono fuori. Quando una pattuglia è uscita neppure le vedette la scorgono dopo i suoi primi passi. Sparisce; sembra assorbita dalla paurosa zona di terra che separa gli avversari, da quella zona morta, tagliata fuori del mondo, che miriadi d’occhi spiano con diffidenza, come se si sentissero alla loro volta spiati da quel vuoto, guardati da qualche cosa di invisibile e aspettante. I soldati ci hanno