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80 | dell’uomo di lettere |
immersi ne’ profondi pensieri de’ loro studj l’obliavano per qualche tempo. Così Carneade dimenticatosi d’esser’uomo, mentr’era tutto mente e tutto pensieri, sazio del soavissimo nettare di quelle nobili cognizioni di che pasceva l’ingegno, lasciava morire di fame il corpo, se altri a forza non glielo ravvivava col cibo. Così Archimede sembrava sempre fuori di sè, mentre più che mai era tutto in sè; onde abstractus a tabula, a famulis (disse Plutarco1), spoliatus, unctus, super ipsa pelle sua mathematica schemata exarabat. Così, per lasciarne cento altri, Demostene, conoscendosi debitore al suo nobile ingegno d’una non ordinaria riuscita, si prese la casa per prigione, e, radendosi il capo, s’obligò a non uscire in publico, fin che non si vedeva e in capo i lunghi capelli è nella mente i savj pensieri che gli mancavano. Noi, che dovremmo essere tanto più studiosi di questi quanto a paragon loro siamo più corti d’ingegno, ci penseremo di fare non che assai ma troppo più del dovere, se, ritogliendo alle dolcezze del sonno, alle occupazioni de’ negozj, a gl’inviti delle commodità una e quando più due ore al giorno, le daremo a gli studj? A sì poco studio una vita di Noè ci vorrebbe: Parvis nutrimentis quamquam a morte defendimur, nihil tamen ad robustam valetudinem promovemur2. Le stille d’acqua continuamente cadendo diventano scarpelli e cavano i marmi, è vero: ma perchè essi son marmi ed esse stille d’acqua, vi bisognan cento anni prima che s’affondino un dito.
Udiste mai un certo Parasito, in un’antica Comedia (sia d’Aquilio o di Plauto, ciò niente rilieva) intitolata Boeotia, lamentarsi di colui, che, a troppo gran danno dell’altrui gola ingegnoso, avea trovata l’arte di fabricare gli orivoli a Sole, che, divenuti la misura dell’ore e del tempo, regolavano le publiche e le private azioni; onde non si mangiava oramai più quando s’aveva fame, ma quando piaceva all’orivolo? Eccovene alcuni versi riferiti da Gellio3.