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54 | dell’uomo di lettere |
s’avvede degli errori suoi, de’ quali senza volerlo si fece publicamente maestro stampandoli; o lascia prevenirsi da altrui nel prescrivere loro opportunamente l’antidoto, e darne l’ammenda; quando ciò avvenga, chi è saggio conoscitore, e ragionevole amico del dovere, non se lo ascrive ad onta, non se lo reca ad ingiuria, nè se n’adira: imperciochè non vuole, che come già i Romani, mentre erano affatto ignoranti delle Matematiche, regolavano le publiche azioni con uno sregolato e bugiardo orivolo a Sole, non enim congruebant ad horas ejus lineæ1, così gli errori suoi sieno publica regola dell’altrui sapere. Nimis enim perverse seipsum amat, disse il grande Agostino2, qui et alios vult errare, ut error suus lateat.
Anzi essere ajutato a disingannare e sè, e, quello ch’è più, il Mondo, tanto dovrebbe esser caro ad ognuno, quanto obligato è ognuno ad amare la verità. Ed eccovi in alcune poche sue parole il senso, che di ciò ebbe lo stesso S. Agostino; uomo, non so se d’ingegno o di modestia maggiore3: Non pigebit me, sicubi hæsito, quærere; sicubi erro, discere. Proinde quisquis hæc legit, ubi pariter certus est, pergat mecum; ubi pariter hæsitat, quærat mecum: ubi errorem suum cognoscit, redeat ad me; ubi meum, revocet me.
E questa, di che ho fin’ora parlato, è la parte della modestia di chi scrive. Niente minore deve esser quella di chi legge: non prendendosi la professione di correr solamente a gli errori di chi scrive per condannarli, come gli Avoltoi a’ fracidi carnami, oi Corvi alle carogne per pascersi; facendolo di più con tanta libertà, come se non vi fosse altro in che non si potesse errare, che notando gli errori. de gli altri. E pure verissimo è l’aforismo di S. Ambrogio4: Sæpe in judicando majus est peccatum judicii, quam peccati illius, de quo fuerat judicatum.
Questa è scortese maniera di molti, 'qui obtrectatione alienæ scientiæ famam sibi aucupantur5;
Ferulasque tristes sceptra Pædagogorum6