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Ma quando pur vi fosse toccata una Musa metrice,
con quello che voi chiamate genio o talento di poetar lascivo; io vi dirò, e con più ragione, quello che Lattanzio
ebbe a dire di Leucippo Filosofante, primo inventore
degli Atomi, e difensore del Caso: Quanto melius fuerat
tacere, quam in usus tam miserabiles, tam inanes, habere linguam! Non è egli meglio non avere vena di poesia,
che avere una vena che butti tossico e veleno? Un savissimo Imperadore mai non acconsentì che la moglie sua
beesse vino, ancor che i Medici giurassero, altra medicina non esservi per fare ch’ ella di sterile ch’ era divenisse
feconda. Stimò quel saggio Principe il rimedio peggior
del male; e diceva: Malo uxorem sterilem, quam vinosam. O quanto meglio starebbe a voi in bocca quest’ altro: Malo Musam sterilem, quam lascivam! S’ io non so
favellare altra lingua, che d’animale; voglio essere anzi
uomo mutolo, che bestia parlante.
E qual pro vostro, che struttovi l’ ingegno, e consumata l’ età e la vita, publichiate al mondo un’ opera, quando pur ciò sia, immortale, se per essa sarete lodati in terra, e tormentati sotterra; lodati dove non siete, e tormentati dove in eterno sarete? Gli Orazj, i Catulli, gli Ovidj, i Galli, i Marziali (per non dire de’ nostri di Religione più santa, ma di poesia piu profana), che giova loro, che stiano ora alla luce della publica fama, se intanto stanno nelle tenebre dell’inferno sepolti; e per ogni apice di quell’ impuro che scrissero, sono tormentati colà, mentre qui, senza saperlo, sono per quello stesso inutilmente lodati?
Benché, quando pur dopo lo studio di molti anni v’uscisse della penna un’ opera di merito immortale (nel che pero pauci, quos æquus amavit Juppiter); di quella gloria, ch’ è il legittimo premio delle fatiche de’ grandi ingegni, altra parte non vi promette che la men degna, quella dico del volgo o de’ viziosi: poiché uomini, assennati e savj, a’ cui orecchi solæcismus magnus et vitium est, turpe quid narare, anzi v’ abbommeran come peste della vita civile