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152 | dell’uomo di lettere |
fuit, solea dire, che partoriva i suoi versi more atque ritu ursino1; perchè non contento d’averli partoriti, li ripuliva ad uno ad uno come l’Orsa, che con la lingua scolpisce le membra de’ suoi Orsacchi, che non solamente deformi ma informi ancora partorisce.
Non dee dunque volersi solo formare i componimenti, ma riformarli ancora: e ci sovvenga, che altri con disprezzo userà con esso loro quella severità in condannarli, a cui noi, scioccamente pietosi, avremo perdonato in correggerli. Prendiamo anche in ciò esempio da Dio, che ne fu fin da principio de’ tempi con una gran lezione maestro, mentre in un giorno fece il Mondo, in cinque lo rabbellì; togliendo or le tenebre al cielo, or la sterilità alla terra; adornando quello di stelle, questa di fiori; fin che, compiuto il lavorio, lo lodò come degno della sua mano, et requievit ab universo opere quod patrarat. Poteva ben’egli lavorar come di getto il Mondo, e tutto farlo in un momento perfetto. Ma, come ben’avvisò Santo Ambrogio2, prius condit et molitur res corporeas, deinde perficit, illuminat, absolvit. Imitatores enim suos nos esse voluit, ut prius faciamus aliqua, postea venustemus, ne, dum simul utrumque adorimur, neutrum possimus implere.
Con questo io non vo’ dire, che si debba essere con gli scritti suoi stranamente crudele, tormentando ogni parola non che ogni periodo, perchè divenga, come le corde delle cetere, quo plus torta, plus musica3. Scripta enim sua torquent (disse quell’antico Controversista4), qui de singulis verbis in consilium veniunt.
E sappiasi, che in ciò non è men condannevole la superstiziosa diligenza di chi, come Protogene, nescit manum de tabula, che di chi è nel correggere trascurato. Perchè la trascuratezza, è vero, non toglie da’ componimenti il soverchio; ma la superstiziosa diligenza (che è peggio) toglie il necessario. Quella, non correggendo, lascia di mutare il cattivo in buono; questa troppo correggendo, muta spesso il buono in cattivo. Perfectum enim