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parte seconda 151

29.

Dell’Esame, e Ammenda de’ propij Componimenti.

Compiuto il lavorio d’un componimento (di cui mi son preso ad avvertire quel solo, che tocca al ritrovamento e all’ordine delle cose, e alla maniera del dirle, per lo fine che da principio mi proposi), ciò che solo rimane è ritoccarlo e ripulirlo; esaminandolo per minuto, e facendo severo giudicio d’ogni parte, per vedere se v’è, come in quelli del suo Remigi trovava Sidonio1, opportunitas in exemplis, fides in testimoniis, proprietas in epithetis, urbanitas in figuris, virtus in argumentis, pondus in sensibus, flumen in verbis, fulmen in clausulis etc. E la sperienza mostrerà esser verissima l’osservazione di Seneca, che le cose, che mentre si che mentre si componevano sembravano di bellezza incolpabile, rivedute, non pajon più desse, e l’autore non le raffigura, Nec se se agnoscit in illis. Mercè che il bollore degli spiriti, mentre s’ha l’ingegno fervido nel comporre, non lascia al giudicio quella tranquillità, quel limpido sereno, che gli è necessario per operare tanto aggiustatamente, quanto posatamente. Perciò fere quæ impetu placent, minus præstant ad manum relata2. Anzi Quintiliano condanno la precipitosa maniera di quelli, che abbandonandosi ad un certo più tosto furore che fervore d’ingegno, scrivono, come chi improvisa, tutto ciò che loro viene in pensiero3: Repetunt deinde, et componunt quæ effuderant; sed verba emendantur et numeri, manet in rebus temere congestis quæ fuit levitas. Perciò (soggiunse egli) si scriva, massimamente su’ principj, consideratamente e con lentezza: si mettano a lor luogo le cose, non si buttino; si scegliano le parole con giudicio, non si prendano a ventura: nè si stimi buono ciò che vien presto. Non enim cito scribendo fit ut bene scribatur, sed bene scribendo fit ut cito4. Virgilio, uomo di sì esquisito giudicio, e che nel comporre gradarius

  1. L. 9. Ep. 7.
  2. Seneca, Epist. 100.
  3. L. 10. c. 3.
  4. Ibid.