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intrecciandosi alla corona i lauri Atene con que’ di Roma, mentre fece sentire su le cetere latine le greche liriche Poesie, n’era da’ più antichi ripreso; e i componimenti suoi, come figliuoli di Musa bastarda e mostri di due nature, ributtati. Per questo abbisognò, che il Poeta chiamasse il suo stilo in difesa del suo plettro, e sotto forma di sua discolpa publicasse le colpe dell’altrui malignità e invidia, dicendo: che l’odiare i componimenti suoi non era tanto amore dell’altrui bello antico quanto invidia del suo bello moderno: che condannavano nel suo sapere la loro ignoranza, vergognandosi di aver’ad imparare da lui giovane ciò ch’essi vecchi non aveano, saputo rinvenire: questa essere ne gli emuli suoi l’origine; d’ogni malivoglienza:

Vel quia nil rectum, nisi quod placuit sibi, ducunt;

Vel quia turpe putant, parere minoribus, et quæ

Imberbes didicere, senes perdenda fateri.

E certo, si può dir con colui appresso Minuzio: Quid invidemus, si veritas nostri temporis ætale maturuit? È sì determinato il Buono all’antico, che non possa mai esser nuovo? Ciò che della Religione scrisse Arnobio, delle Verità che ogni giorno con nuovo acquisto si scuoprono è vero: Non quod sequimur novum est, sed nos sero didicimus quod non sequi oportet.

Chi vuol dunque prescrivere termini e mete al volo liberissimo degl’ ingegni, confinandoli fra le angustie del trovato, come se null’altro ritrovar si potesse? Se questa legge si fosse saputa ab antiquo, oggi non si saprebbe né pur l’antico. Nusquam enim invenietur, si contenti fuerimus inventis. Propterea qui alium sequitur nihil sequitur, nihil invenit, imo nec quærit. E di questi mi par che possa dirsi appunto quello, che delle Pecorelle seguaci, perché timide, disse vaghissimamente Dante:

Come le Pecorelle escon del chiuso,

Ad una, a due, a tre; e l’altre stanno

Timidelle alterrando l’occhio e ‘l muso

E ciò che fa la prima,