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parte seconda | 133 |
Ma nell’adunar materia per formarne un componimento, avverto per ultimo, che può essere di non piccol danno così l’aver troppo come il non aver nulla. Non s’ha ad essere sì scarso in raccorre, come se și volesse che l’opera, che ne ha ad uscire, fosse più magra d’un’Aristarco d’un Fileta, d’uno scheletro vivo; sì che le si contino l’ossa, e le si veggano tutti i corsi delle vene, le fila de’ nervi, le disposizioni de’ muscoli, i moti delle arterie, e poco meno che l’anima. Nè all’incontro s’ha ad esser prodigo, come se si pretendesse formare un’uomo sì corpulento, che paresse, anzi che uomo, un’otre. Chi ammassa di soverchio roba, se non è magnus Deus1, come gli antichi chiamavano l’Amore per essere stato ordinatore del Caos, non ha come disporla per modo, che in tanta turba non nasca confusione.
In oltre, dal soverchio raccorre avviene, che, scelto il più bel fior delle cose, c’incresca oltre modo gittare come inutile il rimanente, che sarà a gran misura più dello scelto; parendo non virtù di buon giudicio, ma vizio di prodigalità, perdere, insieme con tante cose, la fatica e il tempo che si spesero in raunarle. Perciò, mentre tutto piace, e a tutto si cerca luogo, s’empiono i componimenti, come da gl’ingordi il ventre, con più gola per irangugiare che calore per digerire: e quindi dalla copia de’ corrotti umori nasce lo sconcerto de’ corpi, lo sfinimento delle forze, la pallidezza, e cento mali. Idem igitur (disse il Moral2) in his, quibus aluntur ingenia, præstemus; ut quæcumque hausimus non patiamur integra esse, ne aliena sint, sed coquamus illa. Così ci accorgeremo, che alle composizioni, come a’ corpi, non si dee dare quanto vi può capire, ma sol quanto possono cuocere e digerire.
Ma trovato l’argomento, disposte le parti, raunata la materia, e dispensata a suo luogo, si cominci a comporre.