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126 | dell’uomo di lettere |
Ma che pro? se prevalse il gusto al pericolo, e l’occhio all’orecchio;
Coelique cupidine tactus,
Altius egit iter1:
fin tanto, che, strutta la cera e spennate a poco a poco l’ali, cadde dal cielo nel mare, e vi morì. Così va chi lascia il volo al desiderio, e non misura l’altezza del corso che prende con la forza dell’ali che il portano.
Alcuni argomenti vi sono, che pajono avere l’ambizione del grande Alessandro, che non voleva che del suo volto uscisse pittura, statua, o impronta, che non venisse da’ pennelli d’Apelle, da gli scarpelli di Fidia, e dalle forme di Lisippo. Anch’essi sdegnano il lavorio d’ogni altro stile, che d’oro non sia: soli fra tutti gl’ingegni ammettono i più sublimi, come di tutta la terra Giove sole per sè prendeva le punte de’ monti; per questa ragione, che al più alto di tutti i Dei la più alta parte della terra si dedichi2.
Pertanto, degli argomenti molto acconciamente può dirsi ciò che della Fortuna dicevano i Savj antichi, che, a guisa delle vesti, non l’ha migliore chi l’ha maggiore, ma chi l’ha più adatta e meglio acconcia al suo dosso. Pireico Pittore altro per ordinario non dipingeva, che Stalle e Giumenti; Serapione non altro, che Cieli e Dei3. Ma i Cieli di Serapione avevano della stalla, e i Dei del giumento; sì come all’incontro le Stalle di Pireico erano cosa celeste, e i Giumenti nell’eccellenza dell’arte aveano del divino. Non è la materia, ma il lavorio quello, che dà all’artefice il nome e all’opera il prezzo. Se a voi è toccata una penna come il pennello di Pireico, che intorno ad ordinarie materie possa con lode non ordinaria impiegarsi; non vogliate essere un Serapione, che, vago di più alti suggetti, faccia il bello deforme, dove potea fare il deforme bellissimo.
Ha mai veduto il Mondo più ammirabile lavorio della sfera di quel divino artefice Archimede? che facendo quasi un compendio del Mondo, con istrignere l’ampio,