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12 | dell’uomo di lettere |
tenta di volare in cielo che chi si contenta di caminare in terra, pure quel magnis tamen excidit ausis ha tanto del glorioso, che la lode d’esser salito vince di lunga mano il biasimo d’esser caduto. E ancora oggidí il generoso ardire del giovane Icaro, che volando s’avvicinò alle stelle, ha più ammiratori della salita che non ha schernitori della caduta.
Stivæque innixus arator
Vidit, et obstupuit; quique æthera carpere possit,
Credidit esse Deum1.
Ed io per me, vedendo che senza o caduta o inciampo mal si può ire ancor per la calcata (già che in molte cose il nostro sapere è piú credere, che sapere; è piú non vedere gli errori che abbiamo, che non averli), ho nelle lettere il senso, che per altro avea quell’amico di Seneca2: Si cadendum est mihi, coelo cecidisse velim. Vorrei, che i nostri ingegni fossero co’ nostri pensieri come l’Aquile co’ loro pulcini, che, ancor prima che abbiano messe tutte le penne e fermate sicuramente l’ali al volo, li caccian dal nido, perch’escano alla caccia; come se dicessero: Siete Aquile oramai del tutto impennate, e ve ne state qui neghittose a covare il nido? Avete artigli e becco, e non vi vergognate di prendere, come pułcini di Rondini, l’imbeccata? Ite alla caccia, e trovatevi da voi stesse il vivere; chè per questo avete l’armi in pugno, per questo siete Aquile.
Ogni altro pensiero, che non mirasse a ritrovar nelle Lettere nuove cognizioni, Ippocrate lo stimava fuori del segno, dove debbon tirare tutte le linee del loro studio i Letterati. Non volea che si raccogliessero gli avanzi dė’ morti Scrittori, quasi bona naufragantium ma che si facesse vela all’acquisto di nuove mercatanzie, onde: riu« scisse e il mondo piú ricco e noi piú gloriosi. Mihi vero invenire aliquid eorum, quæ nondum inventa sunt, quod ipsum notum, quam occultum esse præstet, scientiæ votum, et opus esse videtur3.