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70 | dell’uomo di lettere |
Vix tamen est fatus: Quid rides, improbe livor?
Quod cecidi? Cecidit non aliter Phaeton.
Da’ dileggi di chi non sapendo favella, e, frutti dell’ignoranza sua, coglie le risa altrui, non debbono essere scompagnati gli scherni che meritano ancor tacenti cert’uni, d’abito Letterati, ma in fatti senza verun’abito di buone Lettere. Di titolo tal volta più che Dotti; ma vox, prætereaque nihil.
La pelle del Lion Nemeo, onorata dalle spalle del grand’Ercole che la portava, mai non si vide fatta più vile, che quando una femina la vestì. Credo et jubas pectinem passas, ne cervicem enervem inureret stiria leonina; hiatus crinibus infartos, genuinos inter antias adumbratos. Tota oris contumelia mugiret si posset. Nema certe (si quis Genius) ingemebat: tunc enim se circumspexit Leonem perdidisse. Così ne parla in sua lingua Tertulliano1. Non altrimenti le vestimenta e i titoli, insegne e caratteri proprj de’ Letterati, portati da gente senza Lettere e rozza, piangono la loro sciagura, vedendosi condannati ad essere perpetuamente bugiardi; poichè dicono a quanti li veggono, essere un Lione chi è un Giumento, essere un’Uomo di Lettere chi è come certi libri ( disse ( ad un simile Luciano), che di fuori vagamente dipinti e riccamente indorati, dentro sono fogli senza lettere e carta bianca.
Quanti di questi si veggono andar sì gonfj e sì superbi, che sembrano quello sferico perfetto de’ Geometri, che non tocca terra fuor che in un punto? Vedendo quello che pajono, si scordano di quello che sono; e quasi Bucefali con la gualdrappa, non degnano che li tocchi nè miri senon il primo Re del mondo.
Tale era un certo mezz’uomo, contra di cui Luciano2 aguzzò si bravamente lo stile. Costui, come ancor’oggidì molti, misurava il suo sapere dalle lettere che avea non nel suo capo, ma su gli scritti altrui; come se il senno de’ Filosofi ne’ libri loro, quasi in ampolle serrato come quello d’Orlando, potesse con solo fiutarlo tirarsi