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parte prima | 19 |
il Cielo gli mandasse gli avvisi di tutte le sue novità, che non se avesse avuto indosso le porpore, in capo le corone, e d’intorno il vassallaggio di tutta la terra. E perciochè hic cœtus astrorum, quibus immensi corporis pulchritudo distinguitur, populum non convocat1, lo schernivano come scimunito i Clazomenj suoi, e ‘l ributtarono come selvaggio: ma egli, a gli scherni del volgo opponendo gli onori del Cielo, tanto non curava di esser veduto, con quell’occhio cortese, con che disse Sinesio di sè stesso2: Me stellæ etiam ipsæ benigne identindem despectare videntur, quem in vastissima regione solum cum scientia sui inspectorem intuentur.
Ciò che della veduta del Cielo, oggetto d’una particella delle naturali scienze, ho io detto fino ad ora, per provare che l’intendere è una certa beatitudine di sì esquisito gusto che incanta il senso e toglie i desiderj di qunt’altro è d’ordine inferiore alla mente, intender si vuole de gli altri sì numerosi, sì nobili, e sì vasti suggetti di soavissime cognizioni, di che può godere l’ingegno de’ Lettere, introdotto nel mondo (disse Pitagora riferito da Sinesio) come Spettatore in un Teatro di sempre nuove e tutte nobili maraviglie. Ita Pithagoras Samius Sapientem nihil aliud esse ait, quam corum, quæ sunt fiuntque, spectatorem. Proinde enim in Mundum ac in saerum quoddam certamen introductum esse, ut iis, quæ ibidem fiunt, spectator intersit3.
Che se dal gusto dello speculare alla pratica del vivere si richiami l’uso delle Lettere, massimamente più severe e gravi, e mi si conceda (sì come l’acconsentono tutti i Savj) di chiamar con nome Savio quell’Uomo di Lettere, a cui il lungo e retto intendere abbia raffinata la mente e purgato il discorso dalla feccia di que’ bassi sensi e dalla terra vile di quegli affetti che in noi sentono del brutale, sì che, prosperevolio avversi che sieno gli avvenimenti, li pesi con le bilancie della ragione per quel