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parte prima | 13 |
dimenticati infin di noi stessi. Coelum, dice egli1, perpetuo concentu suorum motuum reddit harmoniam suavissimam; quæ si posset ad nostras aures pervenire, in nobis excitaret insanos sui amores et desideria, quibus stimulati rerum ad victum necessariarum oblivisceremur, non pasti cibo potuque, sed velut immortalitatis candidati.
Ma a dire il vero, per sentire ne’ Cieli il gusto di una soavissima armonia, e per avere di colasù un diletto che ne faccia in parte beati, necessario non è desiderare che la musica di quelle armoniche sfere (sfere le chiamo, per chi non vuol che sieno, come pur sono, tutte un solo e liquido cielo) ne pervenga a gli orecchi. Nulla meno beati ci può fare la nostra mente, seguitando col volo de’ suoi pensieri, non, come altri fa, la Poesia, menzognera ritrovatrice di fole, che guidandoci per l’ampio de’ Cieli ci dica: Qui Fetonte, più animoso che canto,
Ausus aeternos agitare currus,
Immemor metæ juvenis paternæ,
Quos polo sparsit furiosus ignes
Ipse recepit2:
qui cadde Vulcano; e il misurare con un sol passo tutto il viaggio dal Cielo alla Terra, per gran ventura non gli costò più, che travolgersi un piede: questa sdrucita parte del Cielo è la gran breccia, che vi fecero i Giganti di Flegra, nella batteria che diedero alle Stelle, quando la Terra di fulminata diventò fulminante: qui Ercole, qui Prometeo, qui Bellerofonte, e che so io? ma quella parte delle più nobili Scienze, ch’è interprete veritiera de’ misterj, e segretaria delle più occulte cose de’ Cieli; che svelandone gli occhi, ne faccia vedere, come essi sieno nella mole sì vasti, e pure sì leggieri nel moto: nelle influenze sì discordi, e pure nel mantenimento della natura sì uniti: ne’ giri che fanno, altri sì pigri ed altri sì veloci, e pure tutti a battuta e quasi in una stessa danza concordi: nell’ubbidienza al primo Cielo motore sì stretti, e nella libertà de’ propri movimenti sì scìolti, Tanto limpidi, e tanto profondi; tanto uniformi, e tanto varj; sì