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parte prima 11

lascino i capi nel fango? che vi sia chi per pregio quasi di sovraumana virtù porti, come il famoso Milone, un gran Bue su le spalle, mentre intanto il povero Cleante, per viver da uomo, conviene che fatichi da bestia?

Ma io, che avea disegno di cominciare questa mia piccola operetta dalla felicità propria d’un’Uomo di Lettere, mostrandovelo, quando anche ogni cosa gli manchi, pago e beato sol di sè stesso, e, come Seneca lo chiamò, un piccol Giove; che ho fatto fino ad ora, esagerando, nella durezza di chi nol sovviene e onora, il bisogno ch’egli ha di sovvenimento e d’onore? Ma pure io con ciò ho più mostrato il male di chi non li prezza, che miseria alcuna che in essi sia per non esser prezzati. Chè alla fine l’oro, benchè cavato dalla terra e da’ sassi, dov’è nelle miniere sepolto, comparirebbe più splendido a questa luce; nondimeno più perde chi nol cava e nol fa suo, che non l’oro con istarci nascoso e non esser d’altrui. Ma di più, nella colpa di chi non istima i Letterati si pruova il merito d’essi; poichè il non ingrandirli è demerito; e il non onorarli è colpa.

Or si vegga, come un’Uomo di Lettere possa trovare dentro a sè stesso la viva surgente di quel famoso nettare de gl’Idii, che, solo avendo in sè ogni altro sapore, non lascia che altro si cerchi o d’altro si goda. Questo è il Gusto dell’intendere; il quale quanto copioso sia, comechè possa largamente mostrarsi ne’ suggetti di tutte le Scienze (ma lunga a dismisura sarebbe, e forte increscevole la fatica), piacemi, per saggio dell’altre, accennarvelo in un solo, non de’ migliori, ma de’ più communi: e sia la vista e la vista e la cognizione de’ Cieli; parte della natura, se si sta al giudicio dell’occhio, la più grande e la più bella; se della mente, non l’ultima delle migliori.