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mi aveva introdotto da Monsù Tomè, conosceva benissimo il modo di farlo parlare. Per esempio, non gli diceva mica: «racconti la battaglia di Jena, o quella di Friedland, di Wagram, della Moscòva.» Se egli avesse cercato di dargli la stura in quella forma, Monsù Tomè gli avrebbe risposto senza fallo, come rispondeva ad altri profani: «di questi racconti ne son piene le storie.» Bisognava dirgli, invece: «Si ricorda Monsù Tomè, di quel cosacco che le voleva dare una lanciata, a Smolensko, e Lei....»

— Ah, sì! — rispondeva subito Monsù Tome animandosi al ricordo, come un cavallo generoso, al primo colpo di sprone. — Ed io gliene ho levata la voglia con un colpo di baionetta. Era l’alba; il cannone aveva incominciato a brontolare. Marciavo alla testa della mia squadra, quando l’imperatore passò, per andare sul punto minacciato....

E via di corsa. Il racconto era attaccato, e ne avevamo per due ore, per tre, e magari per quattro, nelle quali il narratore dimenticava perfino di bere, ma pronto a ricattarsene quando aveva finito. Perchè, storia o non storia, accompagnato solo, Monsù Tome, nelle sere dei giorni festivi, voleva finire sotto la tavola, da