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Era l’argomento achille della sua logica, lo stimolo più acuto alla sua fibra intorpidita. Punto sul vivo, Monsù Tome tracannava d’un fiato l’ottavo, il nono, il decimo, vedendo confusamente, come attraverso una nube, l’acqua paurosa, eppure dominata, di tutti i fiumi della Russia.

Ahimè! Dopo quel decimo bicchiere, Monsù Tome andava regolarmente sotto la tavola. Al ruzzolare della sua pentola di cuoio, al saltellare della sua spada sul pavimento, esciva la fantesca dalla cucina, per raccogliere i morti. Prima di tutto, da buona massaia, la Teresina (era questo il suo nome) portava in luogo sicuro il fiasco e i bicchieri; poi, allontanava la tavola, per iscoprire il degno comandante, gli slacciava il cinturone, gli sbottonava la tunica, e, lavorando di fine, lo metteva bel bello in maniche di camicia e in peduli. I calzoni di nanchino, orgoglio estivo di Monsù Tome, erano buttati senz’altro nella biancheria da portare al fossato, e quel sacco d’ossa, mezz’ora dopo il decimo bicchiere, russava pacifico nel suo letto.

La mattina seguente, sull’alba, e senza che battessero la diana, Monsù Tomè si risvegliava, scendeva da letto, magro come un chiodo, di-