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glie, e a prenderla in vecchiaia non c’era più sugo; perciò viveva i suoi ultimi anni da scapolo, aspettando il bacio nuziale della morte e contentandosi dei servigi d’una vecchia fantesca. Parlava poco, di solito; anzi, per sei giorni della settimana, non diceva che le parole necessarie al disbrigo delle facendo d’uffizio, le quali, in verità, non gli davano molto travaglio. Ma egli era solo, anche in uffizio; i registri li teneva in ordine lui, e, quando aveva segnati i suoi arrivi e le sue partenze in libera pratica, trovava ancora il modo di riempire con certe note storiche la colonna delle osservazioni.

Era una specie di letterato, il povero Monsù Tome; uno scrittore andato a’ cani. La sua prima vocazione era stata di farsi prete; perciò aveva fatto un corso di studi classici nel seminario di Mondovì; ma la guerra era scoppiata improvvisamente tra il Piemonte e la Repubblica Francese, ed egli aveva barattato la tonaca e il nicchio del seminarista, con la falda mostreggiata e la lucerna del granatiere di Monferrato. Ciò basti a spiegarvi la letteratura di Monsù Tome; ora torniamo alla settimana del vecchio comandante di spiaggia.