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tuttavia di buon osso. Alto ed asciutto, leggermente curvo nelle prime vertebre, ma sostenuto in vista dalla rigida andatura soldatesca, il viso incartapecorito, ma con la punta del naso rosseggiante come una miniatura di vecchio antifonario sul bianco delle basette sempre irte a guisa di stecchi, Monsù Tome aveva il tipo dell’antico ufficiale napoleonico; e cert’aria di malinconia che regnava su quel volto d’altri tempi, pareva rimpiangere un lontano periodo di cadute grandezze, di eroiche imprese, di memorabili gesta, non più in armonia con la prosaica mediocrità del giorno presente. Sarà forse per questo, che io, quando penso a Don Chisciotte, il triste cavaliero della Mancia, non so figurarmelo altrimenti che con la fìsonomia di Monsù Tomè, ufficiale di sanità, comandante di spiaggia (il titolo non lo rammento più esattamente) nella fedelissima città di Loano.

In quel modesto ufficio egli era stato sbalestrato, dopo i trattati del Quindici e il ritorno dei reali di Sardegna a Torino, con rispettivo accrescimento di territorio sulla riva del mare ligustico. Era solo, oramai, del suo sangue; in gioventù non aveva avuto agio di prender mo-