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64 | la legge oppia |
Licinia
Epperò ardisco parlare. Tu l’hai col tribuno Fundanio. Ma che c’è egli di male, se le donne chiedono di potersi ornare un tal poco, per piacer meglio ai mariti?
Plauto
(da sè)
Ai mariti! ben detto!
Catone
Che c’è? Che c’è? che siete sciocche e sguaiate. Ohè, dico, non mi mettete la casa a soqquadro! Poc’anzi il servo che pizzica di greco; adesso la ribellione alle leggi. Ah, volete lo sfarzo! Vi darò tutto io! Avrete porpora ed oro a staia, ancelle, staffieri e donzelli e carrozze da scarrozzare! All’uscio non picchieranno che visitatori a modo! il ricamatore, l’orefice, il lanaiuolo; trecconi, merciai di frange d’oro, di tuniche, di camicette; tintori, vuoi in color di fiamma, vuoi di violetto, o di cera; sartori d’abiti, colle maniche alla foggia asiatica; rigattieri, tessitori, profumieri, e più sorte di calzolai, che vi calzino, ora alla greca ed ora alla romana. Ve li darò io, i fronzoli; ve lo darò io lo sfoggio, da piacer meglio ai mariti. Vedrete che larghezza di console! Roma è guasta; bisogna correggerla, risanarla col ferro e col fuoco, incominciando di qua. Che te ne sembra, Valerio? Saremo noi così sori, da lasciarci soverchiare dalla ambizione e dalla follia delle donne? Suvvia, che pensi?