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Così passavano i mesi; così passarono gli anni. Il signor Demetrio andava qualche volta, di due in due mesi, a Lodi, per veder la figliuola, e ne portava sempre buone notizie. Già egli si era assuefatto all’idea di non vederla più che a lunghi intervalli. Virginio non la vedeva che a lunghissimi, perchè di muoversi da Mercurano egli non poteva neanche vagheggiare l’idea; il Bottegone, fabbrica immane, voleva tenersi lì sotto il suo trave maestro, come ai tempi mitologici il cielo si teneva sotto il buon vecchio Atlante, suo eterno sostegno. Per veder la sua scolarina, Virginio doveva aspettar le vacanze, quando il collegio le permetteva di passare qualche settimana a casa. Ma la bambina era una giovinetta, oramai; i giorni delle vacanze si facevano d’anno in anno più pochi. Nella casa di Mercurano non c’erano donne, tranne di servizio: il signor Demetrio capiva bene che quello non era posto per lunghi soggiorni, ad una fanciulla che faceva il suo corso di studi nel collegio delle Dame Inglesi di Lodi.

Al quarto anno di conservatorio Fulvia toccava già i quindici. Bisognava ormai lasciarla in collegio, anche nella stagione delle vacanze, contentandosi di andarla a vedere di tanto in tanto. Sicuro, il signor Demetrio poteva farlo benissimo, il viaggio; non così il signor Virginio, il povero Atlante del Bottegone.

Gli anni volgevano lenti, a Mercurano, ma pieni di lavoro; e la tristezza nell’assiduo lavoro si affoga, come un vin grosso si stempera nell’acqua; ahimè, senza farsi migliore. Al settimo anno compiuto, quando non ci fu più nulla da insegnarle, nè francese, nè tedesco, nè inglese, nè storia, nè geografia, nè disegno, nè pianoforte, al collegio di Lodi, la signorina Fulvia ritornò.

Ma era una signorina davvero. A dieci anni, quando essa era partita la prima volta per quel suo benedetto collegio, Virginio l’aveva baciata con tenerezza sulle guance. Ai primi ritorni l’aveva ancora baciata, ma riguardosamente, sui capelli. L’ultima volta che era venuta a casa in