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— La signorina sta bene; — rispondeva egli, facendo bocca da ridere. — Abbiamo ricevuto notizie ieri della sua classificazione bimestrale.

— Delle prime, s’intende.

— La prima, signora mia, la prima.

— Bene, perbacco! come qui?

— Nessuna meraviglia; — replicava Virginio, ammiccando. — Son buone scuole, a Mercurano, e chi ha bene studiato qui, ne porta i frutti dovunque vada. Sa quello che ha guadagnato di più, che non poteva avere da noi? Una bella mano di scritto, inglese, affilata, elegantissima; un vero caratterino di duchessa. —

Il signor Virginio non ne aveva ancora veduti, caratteri di duchesse. Ma si sa, le duchesse, dai tempi di Carlomagno in poi, debbono scriver tutte a quel dio.

— Quella Fulvia è un angelo; — dicevano le conoscenze a gara. — Felice chi la sposerà.

— Sicuro, felice; — rispondeva Virginio, inchinandosi.

Ma perchè diventava triste, quando gli facevano di questi discorsi? O piuttosto, perchè glieli facevano? Perchè pensavano tutti a maritare la signorina Fulvia? Non bastava, non era già troppo che fosse fuori di casa? Che antipatica manìa, quella di certa gente, di non aver pace e di non volerne concedere a nessuno! C’è un bel fiore alla pianta, che fa spicco sul davanzale del terrazzino; e quella gente non è tranquilla fino a tanto non l’abbia strappato dal ramo, per metterlo in un mazzo, e mandarcelo ad appassire in un boccale. La bambina è ancora a balia? ve la mandano a scuola. È ancora a scuola? ve la mandano a marito. Che furia è mai questa, di cacciarsì avanti le giovani generazioni, come un branco di polli d’India al mercato?

Quando gli si parlava due volte in un giorno di maritare la signorina Fulvia, il nostro Virginio durava un gran fatica a contenersi. E mandava giù molto male la sua minestra, e ricusava i piatti intorno a cui la povera Marietta credeva di essersi meglio industriata.