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europei: alla ragazza della cartoleria (una novità per Mercurano, avere messa una donna a quel ramo più gentile del negozio) domandava notizie dei suoi vecchi, del fidanzato sotto le armi, del fratellino ammalato.

Quei mutamenti erano osservati; ed era uso al Bottegone di aspettarseli; tanto che si chiamavano i lunedì del signor Virginio. Nessuno diceva più Zufoletto: quel soprannome si perdeva oramai nella notte dei tempi; non ci si poteva pensar più, dopo che il fattorino era salito a dignità di segretario. Neanche era parso strano che ci fosse salito, tanto era stata insensibile l’ascesa, e naturale, e fatale. Si era presto veduto che quel tamburino aveva nel suo zaino il bastone di maresciallo. Anche prima di vederlo assunto all’onore della «firma» e non d’altro occupato che della corrispondenza, si capiva che la mente direttrice era lui. E non aveva mai abusato della sua autorità, non si era mai invanito della sua dignità; andando da una stanza all’altra, sempre in moto e presente a tutto, non disdegnava di metter mano alle pezze, ai cartoni, ai barattoli, come ogni altro dei giovani di negozio. C’erano degli avventori che preferivano essere ancora serviti da lui; e il signor Virginio non si faceva pregare. Senza aver aria di degnarsi, senza neanche aver quella di levar l’uffizio agli altri, prendeva lui la mezza canna, spiccava lui la catenella di similoro, metteva lui i pesi sulla bilancia, levava lui le scatole dagli scaffali, apriva le risme, e magari, in assenza del suo antico maestro d’aritmetica, affettava il prosciutto; sempre garbato, facile nel tratto, sorridente e premuroso, pareva un principe travestito, che s’adattasse per amore a fare il garzone di bottega e lo facesse di buona voglia, senza lasciar sentire la degnazione, o indovinare lo sforzo.

Qualche conoscenza gli domandava alle volte di Fulvia. Era naturale che ne domandassero a lui, se il signor Demetrio non si faceva veder quasi mai al Bottegone. Allora dovevate vedere come gli s’illuminasse la faccia.