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manderà, più ne sarò contenta. Veda un po’ che sfacciata!».
Ah sì, subito, cara! Appena finito di leggere, il signor Virginio corse a cercare l’Antologia del Mauri. Un’ora dopo, il libro era già alla posta, e pieno zeppo, tra le pagine, delle più belle figurine che da due settimane andassero a riporsi in un certo cassetto della cartoleria, invano aspettando il grido di meraviglia d’un bell’angelo caro.
Quelle lettere, com’erano dolci! quei lunedì, come li aspettava! E in attesa dei lunedì, lavorava tutta la settimana come un bue, paziente e in apparenza tranquillo sul solco. In verità, avrebbe potuto lavorare un po’ meno, e bastare a tutto, perchè Fulvia non era più là, ed egli non aveva più da consacrarle una parte del suo tempo. Ma egli notava che l’assenza di Fulvia, per rispetto alle occupazioni sue, era peggio della presenza. Si era infatti avveduto che pensando a lei, guardava davanti a sè in qualche punto dello spazio; e non voleva perdere un tempo che non era suo, ma di casa Bertòla. Perciò si faceva forza, discacciava l’immagine ritornante ad ogni tratto, si chiudeva nel suo lavoro, e curava meglio di prima i «generi diversi» del Bottegone; felice, soddisfatto di sè medesimo, quando gli occorreva qualche nuova trovata.
Il signor Demetrio ci aveva lo svago dei tarocchi; lui niente, e se ne stava intere giornate meditabondo, senza far parole, oltre le poche necessarie al servizio. Ma il lunedì, dopo le nove del mattino, che era l’ora della posta, bisognava vederlo, che bel sorriso gli fioriva sulle labbra, che bella fiamma gli guizzava negli occhi. Le sue parole non erano più ilari; le sue frasi non erano più leggere o più vivaci; ma sempre restando gravi, cascavano più graziose e più dolci. Dal garzone della pizzicheria, già suo primo maestro d’aritmetica, accoglieva con maggiore benevolenza qualche barzelletta discreta; per il commesso alle pannine aveva qualche confidenza amichevole, sul prezzo delle lane e dei cotoni, com’era facile pronosticarlo dai telegrammi dei mercati