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scio e andava a svagarsi per le vie del paese, ansimando e sbuffando, ch'era la sua maniera di sospirare. Ma poi, dopo tanti giri e rigiri, cascava all’osteria dell’Aquila d’oro, dove lo aspettava, tira le due e le tre, la solita partita a tarocchi, col farmacista, col segretario comunale, col medico condotto, o, quando il medico era chiamato altrove dal suo ministero, coll’oste che ne assumeva graziosamente l’«interim». Quella era un’usanza vecchia, per il signor Bertòla; l’aveva presa dacchè gli era morta quella santa donna della signora Giuditta; e l’aveva presa per consolarsi, per dimenticare un paio d’ore, magari due paia, la tristezza della solitudine.

Zufoletto, in quella vece, non usciva di casa: non c’erano consolazioni per lui. Ma no, dico male, una ne aveva, quando le cure del Bottegone gli davano mezz’ora di tregua. Andava a chiudersi nella sua camera, e apriva il suo cassettone, mettendo fuori i quinterni della bambina, che ripassava l’uno dopo l’altro, regolarmente, lentamente, come se dovesse ancora notarne le mende, e rilevare i progressi. E non erano solamente quinterni d’esercizi; c’era anche qualche buona copia di piccoli componimenti; una tra l’altre, che Zufoletto guardava più a lungo che tutte le sue compagne, quantunque fosse in pessimo stato, gualcita e stracciata nel mezzo per tutta la sua lunghezza. Ma egli l’aveva aggiustata con cura, collegandone i pezzi con liste gommate, tratte dai margini di una carta di francobolli. Sulla testata di quel foglio era scritto, con un bel carattere tondo, il titolo del componimento: «La figlia del Re.» Doveva essere una novellina; e patetica, senza fallo, perchè rileggendola gli si inumidivano maledettamente le ciglia. Bella consolazione, direte; ma non son tutte impastate di sorrisi, le consolazioni degli uomini: ce ne sono che fanno piangere; e quella era forse del numero.

Altre consolazioni dovevano venire a Zufoletto; e quelle, dopo un po’ di confusione, che suole occorrere in tutti i principii delle cose, presero