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una vettura per la partenza del pomeriggio. Aveva tutto calcolato, e non perdeva la corsa. Nessuno aveva da chiedergli il perchè di quella partenza, nè la meta del suo viaggio. Fulvia vedeva tutti quegli apparecchi, e non fiatava, non mostrava neanche di badarci. Quando egli ebbe finito, e gli si annunziò che la vettura era pronta, baciò i suoi bambini colla tranquilla benevolenza del babbo che parte per restar lontano un paio di giorni; poi, rivolgendosi a sua moglie, con pari calma, con pari tranquillità, le parlò brevemente in questa forma:
— Signora, vostro padre è più alterato di voi, che è tutto dire. Parto per Bologna, dove consulterò un avvocato, per venire d’accordo, se potremo, a ciò che voi desiderate e che io non ricuso. State sana, è il mio voto. Mi duole di avervi recato noia, credetelo, e darei mezzo il mio sangue perchè ciò ch’è stato non fosse. La mia buona intenzione non può mutar nulla, pur troppo; gradite almeno le mie condoglianze. —
Finito il suo discorsetto, il conte Attilio Spilamberti di San Cesario salutò cerimoniosamente una volta, poi un’altra quando fu sull’uscio, e via per la scala: due minuti dopo la contessa Fulvia sentì il rumore della carrozza che portava via da Mercurano il suo signore e padrone, «quello dei guanti» come lo chiamava nei suoi soliloquii il povero Virginio Lorini.
La signora era stata in piedi, muta, immobile, impassibile, a sentire il discorso. Al saluto cerimonioso di lui aveva risposto con un cenno del capo. Nè si era più mossa, fino a tanto che non aveva udito il fragor delle ruote sul battuto della piazza. Un sorriso sardonico le contrasse le labbra, ed una frase proferita a mezza voce commentò quel sorriso.
— Ed io ho potuto amare quell’uomo! —
Nè altro disse; e già si muoveva per ritornare alle sue occupazioni, quando entrò nella stanza suo padre:
— Plebeo a me! — gridò egli, che ancora non aveva potuto digerire l’insulto. — Villano rifatto