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sciato che si pesasse, s’indagasse quanto valeva, per accettarlo, o per rifiutarlo. Colpa sua, signor Bertòla, se ha creduto di accettarlo. Non le dirò altro intorno a questo ingrato argomento. Son gentiluomo, Le ripeto, e le male parole mi spiace ancora più dirle che sentirmele dire. Me ne andrò; quanto alla forma della separazione, che Ella vede al pari di me inevitabile, ne tratteranno due avvocati, ai quali diremo le nostre ragioni, senza violenze, parolacce ed ingiurie plebee.
— Plebee! — ripetè il signor Demetrio, che già da un tratto sentiva di non poter più stare alle mosse. — Plebee! Che cos’è questa parola? Poc’anzi ho sentito dire villano rifatto. Per caso, conte Spilamberti, vorreste mettermi sotto? o solamente prendermi in giro? Adagio ai mali passi, e ricacciatevi in gola le vostre impertinenze. Si parla egli così, dall’alto al basso, con uno che ha veduto sfumare tra le vostre pulitissime mani il suo denaro, un quarto di milione e qualche cosa di più? Plebeo, io, a petto vostro! Villan rifatto, io? Ma tu non vali le mie scarpe smesse, straccione. E bada, sai, bada a te. Se tu non fossi qui, in casa mia, ti darei questo sul mostaccio, e te ne farei una frittata. Ne dubiti? Mi basterà di mostrarti che a sessanta anni, quanti io ne conto, uno di questi scavezza ancora dove tocca. —
E lasciò andare un gran pugno sulla tavola che era tra lui ed il conte. La povera tavola, quasi avesse un’anima e sapesse di dover fare onore al suo legittimo padrone, cedette all’urto, e gemendo si spezzò nel bel mezzo.
Il conte si era già alzato. Osservò l’atto violento senza scomporsi; chinò gli occhi a guardare lo squarcio, come se avesse guardato gli effetti d’una prova di forza; e senza aprir bocca lentamente, tranquillamente, come se non fosse affar suo, si allontanò dalla camera.
Rientrato nelle sue stanze, fece con calma le sue valigie, chiedendo aiuto alle persone di servizio, e mandò molto pacatamente ad ordinare