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gnor conte Spilamberti, altro ci vuole. Ebbene, cerchiamo dell’altro. Che cosa proponi tu? Il divorzio? Non c’è ancora; speriamo che venga, e allora credi pure che mi parrà di andare a nozze, rompendo questo matrimonio così male assortito. Una separazione, in attesa di meglio? Mi fai un favore, proponendola.

— Sì, sì, — rispose il conte Attilio, non badando ai sarcasmi del vecchio, — non domando altro. E poichè voi non volete che si parli di ciò ch’è avvenuto tra vostra figlia e me....

— Te l’ho già detto; a che servirebbe?

— A mettere in chiaro che i torti non son tutti i miei, e che vostra figlia ha stranamente abusato della sua condizione rispetto a me, della mia rispetto a voi, per avvilirmi, per calpestarmi, per rendermi ridicolo.

— Oh questa è nuova di zecca! Ridicolo te? Ma senta, signor conte, ritorniamo pure al Lei; un pò di cerimonia non guasterà; terrà luogo, almeno, della confidenza che non può e non deve più essere tra noi. Ridicolo Lei per opera di mia figlia? E niente ridicola mia figlia, per opera del conte Spilamberti, che l’ha ridotta al verde per far la corte alle avventuriere, in Roma, e qui in Mercurano la sacrifica alla prima Maddalena che capita? Non si provi a dirmi di no. So tutto ancor io, e so che scellerati discorsi non ha Vossignoria dubitato di raccogliere da quella bocca infame. Non si vergogna, signor conte, di questo? A casa mia si chiama sfamarsi alla tavola del prossimo suo e poi sputare nel piatto.

— Riconosco di avere avuto torto in questo particolare; — rispose il conte Attilio. — Ed ella può risparmiare i paragoni, che vorrebbero offendermi. Ero fuori di me; non ho pesate le mie parole. Son nato gentiluomo, e dei falli che ho commessi voglio esser io il primo ad accusarmi. Se ella me ne avesse lasciato il tempo, non avrebbe avuto occasione di dirmi un’insolenza volgare. Non ho avuto, per sua norma, da sfamarmi alla tavola di nessuno, foss’egli principe o.... villano rifatto. Ho offerto il mio nome, ed ho la-